I lager SOVIETICI

La terribile percezione di una realtà che scosse le coscienze di quanti avevano creduto nel cosiddetto "paradiso sovietico"


Un impero economico fondato sul lavoro forzato di milioni di prigionieri, internati nei grandi complessi penitenziari delle remote regioni sovietiche, dove i detenuti vivevano in condizioni inumane e dove la morte per stenti e maltrattamenti era all'ordine del giorno. Se in Occidente la realtà del Gulag è stata conosciuta a partire dagli anni 70 soprattutto grazie ai romanzi di Aleksandr Solgenitsin e di Varlam Salamov, molto più arretrata è la ricerca e la documentazione storica.

È a partire dagli anni di Mikhail Gorbaciov che è venuta alla luce la mappa, di questo apparato di concentramento che storici russi (e qualche raro occidentale) hanno cominciato a ricostruire sulle carte di alcuni archivi finalmente aperti la sinistra contabilità dei 20 milioni di persone che avevano vissuto il calvario dei lavori forzati.
Sembra da alcune testimonianze che l'idea di usare i detenuti come lavoratori forzati fosse stata di Lev Trotskij e avesse le sue radici nella tesi bolscevica della «riforgiatura», cioè della rieducazione attraverso il lavoro, «motivo di onore, gloria, valore, eroismo», come si leggeva all'ingresso dei campi. Questa visione, in qualche modo positiva, aveva circolato per molto tempo in Occidente, rafforzata anche da testimonianze come quella di Maksim Gorkij. Nel 1929 lo scrittore, dopo aver visitato il campo di concentramento delle Solovki, isole del mar Bianco a 200 chilometri dal Polo, aveva scritto un reportage pieno di lodi per la politica carceraria del regime. La sua testimonianza, considerata affidabile dalla Croce Rossa, trova un'eco nelle fotografie che pubblichiamo, e che dovevano mostrare ai sovietici la faccia positiva della «riforgiatura».
In realtà nelle baracche dei campi di lavoro forzato la vita era durissima. È soprattutto a partire dal 1934 che il gulag diventa il luogo della repressione di massa. Già nel 1935 i 500 mila lavoratori dell'anno prima erano diventati 965 mila. Nel 1938 erano saliti a un milione e 900 mila, fra cui quadri di partito e vecchi bolscevichi, oltre che vittime dell'epurazione dell'esercito. La vita nei campi aveva avuto un drammatico giro di vite con l'arrivo a capo dell'organizzazione penitenziaria di Lavrentij Beria, deciso a potenziare la produttività del popolo dei detenuti moltiplicando la repressione. Sono gli anni descritti da Salamov nei suoi "Racconti della Kolyma", ambientato nella miniera Partizan, dove i prigionieri estraevano l'oro a 50 gradi sotto zero, fra botte e angherie.
Emergono nuovi, tragici aspetti sull’odissea dei militari italiani caduti e dispersi in Russia durante la seconda guerra mondiale.
Durante i combattimenti e le marce nella neve morirono circa 20.000 alpini, mentre le vittime delle terribili condizioni di vita nei campi di prigionia sovietici furono almeno 70.000, di cui 40.000 registrate negli elenchi nominativi che più di mezzo secolo fa furono segretati dal Komintern. Questi documenti inediti, custoditi nell’ex archivio centrale del Pcus, sono stati recentemente inviati dal governo di Mosca al Commissariato di Onorcaduti (organismo del ministero della Difesa italiano).
A riaprire il capitolo della guerra sul fronte del Don è uno studio pubblicato sulla rivista Nuova storia contemporanea. Ne è autrice Maria Teresa Giusti, ricercatrice dell’Università di Bologna, che ha svolto una lunga indagine negli archivi ex sovietici, guadagnandosi per questo anche un premio della Fondazione Spadolini. Fino ad oggi nella pubblicistica sulla campagna di Russia si era accreditata la versione secondo cui l’alta mortalità tra le divisioni dell’Armir (in tutto circa 9085.000 morti su 220.000 alpini) si dovesse imputare alla lunga ritirata, alle battaglie con i soldati dell’Armata Rossa, che sbarravano spesso il cammino verso sudovest, alle condizioni climatiche proibitive e all’abbigliamento inadeguato dei nostri soldati.
Questa spiegazione è attendibile spiega Maria Teresa Giusti ma parziale in seguito alle carte inedite consultate negli ultimi due anni. In realtà la seconda offensiva del Don fu caratterizzata da scarsi combattimenti e la maggior parte delle forze dell’Armir, ormai allo sbando e senza munizioni, combatté nel tentativo disperato di superare lo sbarramento nemico. Molti sopravvissuti alla tragica ritirata, vagando nella steppa a 30 gradi sotto zero, caddero prigionieri. E i nuovi documenti indicano chiara mente che la mortalità nei campi sovietici fu molto più alta di quanto si fosse creduto: secondo i tabulati inviati dal governo russo, almeno 40.000 alpini sono morti nei lager e altri 2030.000 durante le marce e i trasferimenti in treno verso i campi di internamento.
Da una sezione dell’ex archivio centrale del Pcus a Mosca è emersa - osserva la ricercatrice nel suo saggio - una ricca documentazione che rivela l’efficienza organizzativa del lavoro politico fra i prigionieri italiani, ma allo stesso tempo svela le difficoltà dell’apparato dell’Armata Rossa nel gestire la massa dei soldati reclusi. Il lavoro politico, che ebbe i toni iniziali di propaganda antifascista fra i prigionieri di guerra, si andò poi caratterizzando nelle forme di un vero e proprio indottrinamento sulla base del marxismo-leninismo.
Gli obiettivi dell’attività di propaganda antifascista rivestivano un carattere prioritario per il Nkvd (il Commissariato del popolo per gli affari interni). I commissari politici sovietici, in veste di istruttori e propagandisti, reclutavano quanti fossero interessati alle argomentazioni antifasciste, per la frequenza sia di corsi propedeutici negli stessi campi di prigionia, sia alle due scuole antifasciste allestite nel campo n. 165 di Taliza e nel campo n. 27 di Krasnogorsk. Secondo la Giusti, la bassa percentuale di mortalità fra gli alpini catturati prima dell’inverno 1942’43 “fa pensare che non vi sia stata una volontà persecutoria generale verso i prigionieri dell’Armir: nei loro confronti si ravvisa piuttosto una colpevole negligenza, dovuta soprattutto alle gravi carenze di tipo organizzativo” nei campi di prigionia. Del resto, spiega la studiosa, “dopo il maggio 1943 sembra che i prigionieri di guerra avessero assunto un valore ed un’importanza del tutto nuovi agli occhi di Stalin, che pensò di inserire anche questi uomini nel sistema di rieducazione alle idee del marxismo leninismo”.